Pubblico alcuni
stralci della tesi da me discussa nel 2011: “La forma di governo
Semipresidenziale: applicabilità al sistema italiano”.
Perché lo faccio?
Semplicemente per
affermare che sono convinto della necessità di una riforma di cui si parla
dagli anni settanta, ma che il sistema dei partiti continua a rimandare.
Perché è rimandata?
Il perché lo spiego
nella tesi, per coloro che avranno la pazienza di leggerne gli stralci;
tuttavia posso sintetizzarlo con uno slogan: “Per timore di perdere poltrone
e privilegi in evidente dispregio dei bisogni primari dei cittadini”.
Taluni paventano
una deriva autoritaria, anche i fautori della riforma di Berlusconi del 2006
che -almeno mi par di ricordare- aumentava addirittura i poteri e la discrezionalità del Premier.
Ad ogni modo, la
riforma su cui siamo chiamati ad esprimerci non sarà una riforma perfetta, ma
si potrà sempre perfezionare.
L’importante è
partire!
Primo stralcio, la premessa:
PREMESSA
Questa tesi mi
ha consentito di ricordare, ma soprattutto di scoprire proposte e dinamiche
politiche che –pur avendole vissute come cittadino- non avevo focalizzato.
Ho scoperto
così una pagina della storia istituzionale italiana ricca di avvenimenti e di
confronti parlamentari che mi consente una diversa valutazione dell’azione e
dell’atteggiamento di partiti e di rappresentanti delle istituzioni che ne sono
stati i protagonisti, nel bene ed anche nel male.
L’argomento che mi accingo ad analizzare è
stato al centro del dibattito politico italiano, soprattutto in quest’ultimo
ventennio allorquando si è tentato di riformare il nostro sistema
istituzionale. Ma di riformare il sistema si parla dagli anni settanta/ottanta:
il Rapporto del ministro per la Funzione Pubblica, Giannini, del 1979 e
l’istituzione di due Comitati di studio in ciascuna delle due Camere,
rispettivamente presieduti dal senatore Bonifacio e dal deputato Riz (1982)
furono il prodromo della costituzione nella IX legislatura della prima
Commissione parlamentare per le riforme istituzionali [C.Fusaro – Il Governo
dei cittadini- (a cura di) A.Barbera e G.Guzzetta, 2007]. A questa iniziativa
parlamentare ne sono seguite altre, ma –e questo è stato il loro limite
fondamentale- sono state affidate ad iniziative non parlamentari, ma di
maggioranza che, in quanto tali, hanno avuto il grave difetto di non essere
state coinvolgenti e condivise giacché giudicate –a torto o a ragione-
partigiane.
Ad ogni modo, sulle dinamiche di questi
tentativi, sia delle tre bicamerali e sia dei due successivi tentativi delle
maggioranze di centrosinistra e di centrodestra (che hanno originato un ampio
dibattito politico e dottrinale) mi soffermerò nei capitoli VIII e IX.
Stiamo parlando di tentativi dai quali,
comunque, sebbene naufragati, non si può prescindere se si dovrà, alla fine,
dare una risposta alla domanda nella tesi: la
forma di governo del semipresidenzialismo è applicabile al sistema italiano?
Passo ora direttamente all’epilogo:
A)
Necessità di una riforma
A giudizio
unanime degli analisti del settore giuridico, politologico e
storico-istituzionale, la forma di governo italiana appariva -ed appare tuttora
- meritevole di riforma per superare la natura ‘peculiare’ fra le forme di
governo parlamentari contemporanee, e ciò sia in ragione delle scelte operate
dal costituente del ’48 e sia, soprattutto, per l’impatto che sulla stessa
hanno avuto nel tempo i partiti politici e le leggi elettorali (c.d. Costituzione materiale).
… omissis …
Sarà un luogo
comune attribuire alla c.d. ‘crisi istituzionale’ la responsabilità delle
anomalie che caratterizzano la politica e la governabilità, ma così è.
Crisi
istituzionale non significa una sorta di rottura escatologica, senza ritorno,
degli equilibri e dei poteri fondamentali dello Stato, tale da produrre effetti
di confusione, anarchia e di deresponsabilizzazione nel funzionamento dei
poteri e nell’attività degli organi costituzionali. Visione questa radicalmente
inadeguata a fronte dell’esigenza di una più congrua definizione della crisi
istituzionale che bisogna, piuttosto, intendere come un processo di continuo
adeguamento (in sede di attuazione e di vita dell’ordinamento costituzionale)
delle regole e della organizzazione costituzionale formale alle esigenze (e
secondo modalità imposte o solo promosse) dei più rilevanti centri di potere
politico-comunitari. Al riguardo non si pensi solo ai partiti politici,
dovendosi includere nell’elenco di tali centri di potere, almeno, i sindacati,
le associazioni industriali e mezzi di comunicazione di massa (a base
nazionale)
….. omissis …..
Ma tale
prospettiva si scontra con una realtà che non è più composta di soli assetti
giuridico-costituzionali quanto di uomini che rendono tali assetti
concretamente vivi ed operanti. Pertanto,
nessuna riforma appare praticabile se non si affronta prioritariamente il
problema degli uomini, quindi della classe politica, del suo ampliarsi a
dismisura (in ciò sostenuta dalla legislazione elettorale e dal finanziamento
pubblico dei partiti), del suo conseguente accentuare la politicità dell’azione
amministrativa, ma soprattutto l’obnubilamento delle regole e delle istituzioni
costituzionali.
….. Omissis …..
In questa
direzione appaiono sicuramente utili le
proposte, avanzate da più parti, di una riduzione numerica e di sistemi di
selezione adeguati dei parlamentari.
Un’altra soluzione è quella più
specificatamente orientata ad un intervento riformatore concernente taluni
aspetti della attività dei partiti che -benché attribuiti all’autonomia
interna degli stessi- devono rispondere a procedure giuridiche più garantistiche
(la previsione di statuti che regolamentino in modo efficace la democrazia
interna dei partiti appare una questione non più ulteriormente rinviabile, a
fronte di partiti in cui la democrazia interna è tutt’altro che dimostrata).
9.5.3
Ma non si potrebbe riformare senza stravolgere la Costituzione ?
…. Omissis
….
Nel nostro viaggio ci siamo dilungati pure su
quelli che erano gli aspetti di contorno del tema (forme di stato e forme di governo, la Costituzione
francese, il semipresidenzialismo, le ragioni di una riforma), ma attenzione abbiamo riservato soprattutto
alle ragioni di un “cambiamento”. Abbiamo, così, rilevato che la stagione
delle riforme parte da lontano: dagli anni Settanta; abbiamo anche
rilevato che le ipotesi presidenziale e semipresidenziale non sono una novità
recente, ma semmai sono una riscoperta.
Abbiamo
anche esaminato quelle che sono state individuate come le ragioni politiche ed istituzionali che imponevano ieri ed impongono oggi la necessità di un cambio di
rotta alle istituzioni: abbiamo così rilevato che l’idea di una riforma
trae origine da una crisi delle istituzioni politiche italiane, manifestatasi negli anni Settanta e tuttora
perdurante, riconducibile comunque alla crisi del sistema
politico-partitico. In particolare, si è determinata, in primo luogo la rottura dell’equilibrio tra momento dell’unità
politica, la cura dell’interesse generale che va al di là dei particolarismi
dei gruppi, e gli interessi frazionali (vale a dire, i “piccoli” interessi dei
cittadini). Poi, la forma di governo
-operante sulla base della Costituzione, delle convenzioni e delle leggi di
attuazione della Costituzione- si è
rivelata incapace di frapporre
ostacoli al prevalere degli egoismi di gruppo in nome di un interesse generale;
infine, il meccanismo rappresentativo
ha prodotto un’oligarchia chiusa e irresponsabile.
Un Parlamento ed un Governo ostaggi dei
partiti (ieri, oggi addirittura di singoli parlamentari) non
riuscivano ieri e non riescono oggi più ad assicurare l’equilibrio tra
l’egoismo di gruppo e l’interesse generale in una società divenuta complessa e
articolata, all’interno della quale erano e sono venute meno le tradizionali
linee di divisione su cui erano state costruite le identità partitiche,
soprattutto dopo la rivoluzione dell’Est del 1989, che ha comportato la crisi
delle ideologie.
Analizzando
quest’ultimo mutamento epocale della storia recente emerge la caduta della capacità rappresentativa dei partiti e l’indebolimento dello strumento ideologico che
hanno determinato: da
un lato, la chiusura oligarchica del sistema, accentuata
dall’inamovibilità dei partiti di governo e dalla loro irresponsabilità
politica; dall’altro, la ricerca del consenso ha indotto i
partiti a dare soddisfazione a tutti gli interessi frazionali dotati di
sufficiente forza di pressione. Chi non ricorda quanto forte è stata la
pressione di questi interessi? Chi poi
ignora l’effetto che tale “pressione” ha esercitato sulla spesa pubblica?
Così ha avuto origine la “politica
clientelare” che il trattato di Maastricht, con i suoi parametri per il contenimento dei disavanzi
pubblici, ha intanto messo al bando (purtroppo
quando il danno era stato procurato). Tale imposizione della Unione Europea ha
posto freno alle politiche d’indebitamento, rappresentando una fondamentale premessa per il crollo di
un sistema e di una classe politica che aveva fondato la sua stabilità ed il
suo vasto potere di condizionamento, e anche di malaffare, sui benefici
erogabili ai più disparati gruppi sociali. Da qui l’invocazione di una riforma
costituzionale che avrebbe dovuto, e dovrebbe, rispondere al bisogno di
radicare le istituzioni nella società e, al tempo stesso, di attenuare il
potere di ricatto e di veto degli interessi frazionali.
A) … , si potrebbe più semplicemente cambiare
legge elettorale
Ma occorre
per davvero una riforma costituzionale o, semmai, basterebbe una legge dei
partiti per tentare di “regolare gli sregolati”, come indica G.U. Rescigno;
un’idea, questa, ripresa da S. Gambino (capitolo VIII - punto 8.2.3) il quale,
dopo aver evidenziato la crisi dei partiti, la personalizzazione della
politica, il condizionamento dei partiti sulle istituzioni centrali e periferiche,
ribadisce che quello dei partiti politici indisciplinati è un problema non
ancora risolto, che continua a minare nel fondo l’autorevolezza, la stabilità e
la funzionalità delle istituzioni repubblicane. Occorrerebbe, quindi, pensare ad un ridimensionamento delle
interferenze dei partiti nella dinamica dei poteri costituzionali.
Avendone
il coraggio e la responsabilità, il Parlamento avrebbe potuto e dovuto operare
un intervento riformatore concernente taluni aspetti della vita del partito a
maggiore gravitazione pubblicistica; allo
scopo sarebbe stata utile già una semplice riforma della legge elettorale
finalizzata ad assicurare stabilità e coerenza agli indirizzi politici del
Governo. Invece, probabilmente per non
mutare nulla, il Parlamento ha optato per una improbabile riforma
costituzionale che il sistema politico ha sistematicamente affossato.
Anche
Mortati, nel suo studio “Le forme di
Governo”, affronta già nel 1973 questo aspetto della
politica italiana individuando proprio nel sistema dei partiti la causa
principale dell’instabilità governativa che caratterizzava e caratterizza il
nostro sistema. Mortati poi individuava a tal proposito anche uno dei possibili rimedi:
una seria riforma elettorale maggioritaria per indebolire l’influenza dei partiti
sugli organi di indirizzo politico (in merito si rimanda al sesto capitolo
punto 6.3 B).
Mortati e
Gambino, come
d’altronde altri eminenti studiosi, individuavano (Mortati
addirittura negli anni Settanta) ed
individuano (Gambino in tempi molto più recenti) in una riforma elettorale la soluzione immediata per risolvere il
problema, quello cioè dell’instabilità ed inefficienza dei Governi che ha
caratterizzato la nascita e la sorte dei Governi e dei Parlamenti stessi dagli
anni Settanta ad oggi.
… omissis …
… e si tratta (in Italia oggi, e nonostante una pseudo legge elettorale di
stampo maggioritario, cucita su misura più per le esigenze elettorali dei
promotori che per dare stabilità parlamentare e governativa) di un parlamentarismo non maggioritario,
caratterizzato da governi di coalizione instabili e scarsamente efficienti, in
cui il Primo ministro non svolgeva e non
svolge un ruolo di direzione, ma di mediazione tra le diverse componenti
politiche dell’esecutivo. Inoltre, a
questa debolezza del Governo non corrispondeva
e non corrisponde un ruolo preponderante del Parlamento (oggi men che
mai), bensì un suo sostanziale e parallelo indebolimento: e ciò sia per l’assenza al
suo interno di una maggioranza stabile e coesa, sia per il
ruolo determinante svolto dai partiti politici (oggi anche, e soprattutto, da singoli parlamentari che per
tornaconti personali, altro che responsabilità, sono pronti a cambiare casacca
anche due volte al dì) sia
nella
formazione dei governi, sia nel garantirgli un voto di fiducia e sia
anche
nella ricerca di un accordo su singole misure legislative. Cosa dire del “peso” che oggi ha la
Lega Nord ? E’ l’ago della bilancia come lo
era il Psi di craxiana memoria della Prima repubblica che condiziona le scelte
del Governo avanzando proprie contro-richieste:
devolution e federalismo, alle quali l’attuale Governo non può dire di no.
In
definitiva, come abbiamo già detto, i sistemi parlamentari non maggioritari riconoscono ai partiti e persino a singoli
parlamentari neo eletti un ruolo determinante di mediazione post-elettorale
che, attribuendo loro la libertà di spendere la rendita di posizione garantita
dal voto elettorale (ora solo dalla nomina delle segreterie politiche), li
trasformava ieri e li trasforma oggi nei reali
sovrani delle sorti dei Governi e delle legislature.
Non crediamo che questa analisi sia sfuggita
ai nostri parlamentari; anzi, crediamo che proprio perché ne sono consapevoli
hanno finora evitato una vera e seria legge elettorale maggioritaria.
Tuttavia,
non si disconosce la validità delle considerazioni sia di Mortati e sia di
Gambino sulla necessità di una legge elettorale che limiti i margini di
mediazione dei partiti, ma occorre anche evidenziare che nel frattempo la
situazione politico-istituzionale è mutata: c’è ora il Federalismo che richiede necessariamente un adeguamento
anche della nostra Carta Costituzione.
B) … , o razionalizzare ed emendare la Costituzione
Già al
precedente punto 9.4.2 abbiamo riferito questa soluzione.
…. Omissis
….
Secondo
Gambino, infatti, per riformare sarebbe più utile procedere alla
formalizzazione, ovverosia alla
costituzionalizzazione di quei mutamenti istituzionali che per opinione
comune e condivisa si ritiene costituiscano consolidate consuetudini
costituzionali.
….omissis….
Lo stesso Gambino infatti cita Leopoldo Elia,
maestro del diritto costituzionale. Elia,
esprimendosi sulla proposta di riforma della quale si dibatteva dentro e fuori
il Parlamento: quella di Lorenzago (2003), evidenziava che la forma di governo
italiana -oggetto di continui tentativi di riforma o di sole proposte di
riforma- andava razionalizzata ma non
pervertita.
… omissis …
Perché, dunque, cambiare modello quando si
potrebbe più semplicemente emendare la Costituzione vigente? Un
orientamento, questo, in linea con quei costituzionalisti ed esponenti politici
che -per “modernizzare ed adeguare” la Costituzione- avrebbero preferito il criterio
dell’emendamento al criterio del modello.
Anche
Stefano Merlini [La forma di governo: i
poteri del Presidente della Repubblica, 1998] era di questo avviso. Al capitolo
VIII abbiamo riferito come Merlini -pur esaltando l’intelligenza dei
costituenti per aver costruito una Costituzione “elastica”- lamentava però la
mancanza di una <<cultura dell’emendamento costituzionale>>, alla
stregua di altri paesi (es. Stati Uniti); se una tale cultura fosse stata
recepita anche in Italia, i partiti avrebbero compreso che il pregio
dell’elasticità non poteva rappresentare la giustificazione per non introdurre
in Costituzione indispensabili modifiche. Ciò oltretutto avrebbe permesso di
reperire in Costituzione le potenzialità espansive dimostrate dal sistema,
salvando in tal modo l’impianto e l’ispirazione originaria del nostro
modello.
9.5 Considerazioni finali
Molte
strade, nessuna destinazione.
Noi siamo giunti a destinazione (la
conclusione della tesi), la classe politica, invece, sta ancora girovagando non
decidendo ancora quale direzione prendere e seguire per riformare il “sistema
Italia”. Le ragioni -sia quelle formali e sia quelle meno formali (quelle che si pensano ma non si dicono)-
crediamo di averle già individuate ed indicate.
Nello sviluppare il precedente punto 9.5
abbiamo constatato che sono varie e diverse tra loro le ipotesi formulate da
politica e da dottrina per riformare ciò che andrebbe riformato, alcune condivisibili,
altre meno. Però, finora è mancata condivisione -innanzitutto politica- e di
conseguenza la loro “formalizzazione costituzionale”. A tal proposito prevale in noi -come
peraltro in vari passaggi del nostro lavoro è stato anche esternato (più che
evidenziato) con espressioni che esprimono la delusione del cittadino comune e,
naturalmente, critica all’attuale entourage politico- la “sensazione” che chi detiene l’onere e l’onore di rappresentarci (i
parlamentari, per l’appunto) “non cambia per non cambiare”, non riforma per non
cambiare una situazione che in fondo favorisce il modus operandi dei nostri
politici ed il dominio sulle istituzioni centrali e periferiche, come
l’attualità ci conferma quotidianamente.
Al punto
9.4.1, nell’argomentare le ragioni del fallimento della riforma della
Bicamerale, è stato sottolineato che la
riforma di un ordinamento costituzionale non è solo questione di norme
giuridiche da cambiare ma, prima ancora, di cultura politica da adeguare allo
scopo.
Lo
ribadiamo, precisando però che la cultura politica da adeguare non è solo
quella della classe politica (della c.d. casta), ma anche quella dell’intero
sistema Italia, compresi i comuni cittadini. C’è tanta assuefazione,
indifferenza, accondiscendenza e, in molti casi, un filo di complicità che lega
ed accomuna il “cittadino/elettore” al “politico di turno”; ciò non può che
favorire lo status quo e la perseveranza dei referenti politici a non cambiare.
Il filo
che dovrebbe “legare” il cittadino al politico non dovrebbe essere quello
finalizzato al perseguimento di un privilegio, ma dovrebbe essere quello
dell’apprezzamento dell’impegno profuso dal politico, quello della condivisione
di un programma, quello dell’eventuale riferimento “ideologico”, quello della
vicinanza territoriale. Questo dovrebbe motivare il voto.
… omissis….
L’attuale
sistema elettorale (unito ad una forte personalizzazione dello scontro
politico) ha generato l’illusione di un Premier eletto direttamente dal popolo
senza al contempo prevedere meccanismi di rafforzamento del Parlamento. Anzi,
con la legge elettorale vigente, che prevede l’elezione dei deputati e dei
senatori attraverso liste bloccate, si è svilito il ruolo, la funzione e il
prestigio dei parlamentari stessi. Eppure
la nostra resta, formalmente, una Repubblica parlamentare, non presidenziale.
Inoltre, anche la promessa di una maggiore stabilità si è nei fatti dimostrata
illusoria; lo dimostra l’esperienza
degli ultimi anni e di questi ultimissimi giorni che ha segnato, tra l’altro,
il preoccupante aumento anche di quel trasformismo politico che, con il
bipolarismo e la democrazia dell’alternanza, si pensava potesse divenire solo
un brutto ricordo del passato. E’ dunque fuori discussione che il
superamento di questo sistema elettorale (definito addirittura un mostro
giuridico-politico) sia la condizione necessaria a qualsiasi tentativo di
costruire un sistema istituzionale moderno, stabile e in grado di garantire
maggiore velocità nell’assumere scelte e prendere decisioni.
Per chiudere. Abbiamo
constatato che le soluzioni per riformare il nostro ordinamento costituzionale
ci sono e sono tante. Quella dell’ingegnere Sartori è suggestiva e nemmeno
peregrina, ma non è adatta per la nostra classe politica. Riteniamo, poi, che non si possano condividere quelle che implicano
l’importazione e l’adattamento alla meno peggio (come nel caso della Bicamerale
e del Premierato forte della XIV legislatura) di modelli e di meccanismi degli
altri paesi europei. Occorrerebbe, invece, partire dalla consapevolezza che
le riforme vanno fatte seguendo lo spirito della nostra Costituzione e avendo
come obiettivo alcune esigenze principali sulle quali imperniare un progetto di
modifica. Basterebbe
qualche “ritocco” per “ringiovanire” il nostro sistema parlamentare, come: 1.
una diversa e “seria” legge elettorale; 2. il superamento del bicameralismo
paritario con un Senato rappresentante delle Regioni e degli Enti locali; 3. la
riduzione del numero dei parlamentari; 4. qualche prerogativa per il Capo del
Governo che gli consenta una direzione responsabile di un’attività governativa
stabile e efficiente; 5. norme
antiribaltone; 6. procedure parlamentari più celeri; 7. e …. tanta, tanta e poi
tanta responsabilità politica.
E’
così complicato?
Chi vorrà potrà poi leggere
gli stralci preliminari alle conclusioni.
CAPITOLO
VI – IL PERCHE’ DI UNA RIFORMA
ISTITUZIONALE
6.1 Introduzione
Prima di
affrontare la “spinosa” ipotesi di una eventuale importazione ed applicazione
al nostro sistema della forma di governo semipresidenziale, è necessaria una
breve analisi delle istituzioni dello Stato italiano, da compiere sotto il
duplice riguardo della struttura risultante dalla normativa costituzionale del
1948 e dell’effettivo suo concretarsi nella prassi instauratasi dopo la sua
applicazione. Nel farlo attingeremo utili spunti dallo studio di C. Mortati [Le
forme di governo, 1973]; tuttavia, considerando che frattempo, cioè
dall’analisi di Mortati che è riferita al 1973, sono trascorsi oltre
trentacinque anni -intensi di avvenimenti e cambiamenti politico-istituzionali-
integreremo l’analisi di Mortati con più recenti spunti offerti da altrettanti
eminenti studiosi, quali C. Fusaro [da Le radici del semi-presidenzialismo –
Viaggio alle origini di un modello cui si guarda in Italia, 1998].
A questo
punto, ci si potrà chiedere la ragione per cui si è scelta, tra le altre,
un’analisi -quella di Mortati- riferita ad oltre trentacinque anni. Ecco la
risposta: innanzitutto per la valenza dello studio di uno dei più interessanti
e competenti costituzionalisti; poi per mettere in risalto l’immobilismo della
nostra politica e la persistenza delle problematiche della nostra forma di
governo che, sebbene siano state sviscerate dagli anni Settanta (ed anche
prima, per la verità), persistono e continuano a condizionare il funzionamento
delle nostre istituzioni; infine perché -stando al Mortati- la nostra Costituzione
già conteneva i rimedi che oggi si vorrebbero introdurre per garantire
stabilità ed efficienza governativa. E questa ipotesi -che sarà trattata al
successivo punto 6.3 quando Mortati illustrerà le funzioni dell’organo
esecutivo- non va sottovalutata, anzi va soppesata allorquando si tratterà di
individuare e valutare quelli che potrebbero essere i “rimedi” istituzionali
per dare efficienza e stabilità all’azione governativa.
………
omissis…….
6.3 Forma di governo prevista dal costituente e
sua inesatta ed
incompleta realizzazione.
Si tratta
ora di vedere quali siano le strutture organizzative predisposte dal
costituente configuranti la forma di governo, quanta idoneità sia loro da
riconoscere ad assicurare una congrua e tempestiva attuazione dei compiti
statali, per la soddisfazione delle esigenze di trasformazione dell’assetto
sociale ad essi collegate, infine se ed in quanta parte il concreto spiegarsi
della prassi sia riuscito ad uniformare l’attività dello Stato agli imperativi
costituzionali.
A) Il nostro regime parlamentare monistico
maggioritario
Ebbene, il
regime voluto attuare è quello parlamentare monistico maggioritario. E’
monistico perché concentra la funzione di indirizzo politico nel Governo che
deriva la sua investitura dalla fiducia (quale risulta conferita dal voto
favorevole della maggioranza formata dal partito vittorioso nelle elezioni o
dai partiti di coalizione quando nessuno abbia singolarmente raggiunto il voto
della metà più uno degli elettori) del Parlamento con l’approvazione del
programma da parte di ciascuna Camera quale viene enunciato dal Presidente del
Consiglio dei ministri investito della carica dal Capo dello Stato.
Il
Parlamento è eletto a suffragio universale e si divide in due Camere poste in
posizione di parità tra loro, aventi la stessa durata di cinque anni. Le due
Camere rispecchiano gli stessi schieramenti di partito, il che, se da un lato
riesce ad evitare conflitti di fondo tra le medesime, presenta poi il risvolto
negativo di svuotare in parte la ragion d’essere del bicameralismo,
tendenzialmente rivolto ad arricchire la rappresentanza politica attraverso
l’impiego di canali fra loro diversi per far più compiutamente giungere allo
Stato la voce delle varie forze sociali operanti nel Paese.
… omissis
…..
Il
rapporto fiduciario che lega il Governo al Parlamento …. omissis …. è
predisposto in modo da conferire al primo la figura non già di organo esecutivo
della volontà del secondo (che postulerebbe una forma assembleare), bensì di
organo direttivo, come risulta anche dall’art. 95 della Costituzione che affida
al Presidente del Consiglio la direzione e la connessa responsabilità della
politica generale, ciò che richiede la sua preminenza nei confronti non solo
dei membri del gabinetto (che sono scelti dal Presidente stesso dopo l’incarico
conferitogli di formare il Governo), ma anche della maggioranza che lo
sostiene.
Pertanto,
secondo Mortati il nostro sistema istituzionale era stato predisposto per
consentire al Governo di operare in maniera più efficiente ed “autonoma”.
…. omossis
…..
B) Cosa non ha funzionato nella direzione
voluta dai Costituenti?
La
risposta a tale domanda è stata individuata, probabilmente o certamente, nel
sistema dei partiti che “sottostà agli organi di indirizzo politico e che ne
condiziona l’effettivo funzionamento in quanto ne costituisce il sostegno
trasmettendo loro gli impulsi provenienti dal corpo elettorale con l’esercizio
del diritto di voto”.
Nel suo
studio il Mortati affronta anche questa questione con un’analitica
rappresentazione che si ritiene di dover riportare anche per meglio individuare
non solo una (o forse l’unica) delle cause alla base dell’instabilità
governativa che caratterizza il nostro sistema, ma anche uno dei possibili
rimedi: una seria riforma elettorale maggioritaria per indebolire l’influenza
dei partiti sugli organi di indirizzo politico.
Entriamo
ora nella rappresentazione di Mortati.
In
contrapposto agli Stati a partito unico, quelli che più coerentemente svolgono
il principio democratico considerano la pluralità dei partiti strumento
necessario a realizzare il procedimento dialettico, che risulta dall’azione
contrapposta della maggioranza e dell’opposizione, e dall’alternativa al
governo con lo scambio dall’una all’altra nella direzione della politica
nazionale.
Muovendo
da un criterio puramente numerico, la distinzione che ne risulta è quella tra i
sistemi a <<bipartitismo>> e quelli a
<<multipartitismo>>.
Il
<<bipartitismo>> ha il vantaggio di raccogliere intorno ad uno dei
due partiti contendenti la maggioranza assoluta dei suffragi orientandola nel
senso dell’adesione al programma di cui esso si fa esponente, e di conferire
stabilità e coerenza all’azione di governo a cui dare attuazione, e del cui
fedele adempimento assume la responsabilità di fronte al corpo elettorale,
chiamato a giudicarlo alla fine della legislatura. Sono appunto queste esigenze
di coerenza e di compattezza colleganti fra loro partito e governo che danno
vita ad una unione personale fra il leader del partito ed il capo del governo.
Il
<<multipartitismo>> si presenta invece con aspetti assai diversi e
richiede, per l’esatta valutazione da effettuare delle sue molteplici maniere
di manifestazione, che si prendano -in luogo del criterio solamente
quantitativo del numero dei partiti che si contendono il suffragio- altri
criteri che tengano conto, da una parte, della compattezza interna di ogni
partito e correlativamente della sua capacità di assumere obblighi e
responsabilità di fronte al corpo elettorale (compattezza facilitata dal
raccogliersi della compagine partitica intorno ad un leader), dall’altra, della
convergenza di fondo di tutti i partiti intorno a valori posti a fondamento del
regime, cui corrisponda una estesa convinzione della loro effettiva adesione al
metodo democratico.
Relativamente
al <<multipartitismo>> si suole distinguerlo in
<<moderato>> ed <<estremo>>. Il primo si può
configurare anche come <<maggioritario>> volendosi significare il
raccogliersi di una maggioranza stabile che sostiene il Governo per tutta la
legislatura, e che -visto sotto questo aspetto- presenta caratteri di analogia
con il regime bipartitito. Questa situazione può realizzarsi in due modi, cioè
con la formazione del governo: a) ad opera di quello tra i vari partiti che
abbia raggiunto la maggioranza assoluta; b) o, quando tale ipotesi non si
verifichi, ad opera di una coalizione di più partiti fra loro omogenei, legati
da un accordo intorno ad un comune programma, che per la sua attuazione
richieda il mantenimento del vincolo per tutto il periodo di durata della
legislatura.
…. omossis
…..
Ad ogni
modo, e per ritornare all’analisi di Mortati, contrapposto al multipartitismo
<<maggioritario>> è quello <<estremo>> o <<non
maggioritario>>, in quanto le coalizioni -rese necessarie al fine della
costituzione del Governo- sono caratterizzate da instabilità, non riuscendosi a
tenerle strette intorno ad un <<accordo di legislatura>>, e quindi
suscettibili di dissolversi in ogni momento per venir meno dell’appoggio anche
di uno dei partiti che entrano a comporle.
C) Democrazia bloccata ieri e democrazia zoppa
oggi
In tale
contesto, secondo Mortati, le difficoltà di alimentare una direzione politica
dinamica e coerente possono essere accresciute da due fattori: 1) dal
costituirsi all’interno di ogni partito di <<correnti>> (ndr, è il
caso dell’allora maggior partito, della Democrazia Cristiana), cioè
suddivisioni promosse da un diverso modo di valutare il programma o l’azione
del partito (e, più spesso, dalla gara fra più capi per la conquista di
posizioni di preminenza) che, inducendo a dar vita a vere e proprie
sub-organizzazioni interne al partito, contribuiscono in modo notevole alla sua
inefficienza; 2) maggior compromissione per la funzionalità del sistema può
essere determinato dal secondo fattore, costituito dalla sussistenza di
formazioni politiche considerate non suscettibili di assumere responsabilità di
governo in quanto, da diffusa opinione, venga contestata la compatibilità
dell’ideologia assunta a base delle medesime con l’etica democratica; con il
risultato di circondarle del sospetto che il potere di governo al quale
concorressero sarebbe utilizzato per scalzare le libere istituzioni e per far
loro assumere l’esercizio dell’autorità in modo dittatoriale (ndr, è il caso del
Partito Comunista Italiano ed anche del Movimento Sociale Italiano).
Ebbene,
secondo Mortati, “la situazione italiana” degli anni Settanta si accostava a
quest’ultimo modello, in forma che può definirsi esasperata, perché,
nell’ambito degli otto partiti stabilmente organizzati, ne ospitava, accanto a
sei minori, due maggiori: uno <<di governo>>, la Democrazia
Cristiana, che, in virtù anche dell’appoggio delle gerarchie ecclesiastiche,
aveva raccolto intorno a sé il 35-40% dei voti; l’altro <<non di
governo>>, il Partito Comunista, forte del 25-27% dei suffragi.
Quest’ultimo rappresentava una forza compatta perché organizzato in forma
centralizzata intorno al gruppo dirigente, sicché i dissensi di orientamento,
pur sussistenti nel suo seno, non davano vita a correnti. La prima invece che,
per la sua forza numerica appariva elemento ineliminabile per qualsiasi
formazione di governo funzionando, pertanto, quale asse portante di ogni specie
di coalizione, era invece inceppata nella sua azione da una molteplicità di
suddivisioni interne, che contribuivano a rendere oscillante la sua azione,
privandola della necessaria precisione e rapidità.
La
posizione di centro occupata dalla D.C. -rivolta a mantenere una equidistanza
dalle ali estreme dello schieramento politico e l’interclassismo che ne stava a
base … omissis… - si poneva in realtà come fattore ritardatore dell’evoluzione
delle istituzioni verso le direttive tracciate dalla Costituzione e rendeva più
difficile, anche in considerazione della genericità dei programmi sottoposti al
giudizio del corpo elettorale, l’assunzione di precise responsabilità di fronte
ad esso.
“Ad
ostacolare l’assunzione ad opera delle maggioranze al governo del compito che
sarebbe loro specifico, di mediazione e di sintesi degli interessi che emergono
dalla società, spesso fra loro contrastanti, si fa valere poi, di fatto,
l’interesse dei partiti alla conservazione e al potenziamento del potere
goduto, quando esso risulti soddisfatto dall’accoglimento delle pressioni
settoriali provenienti dai gruppi più vari e nelle più diverse direzioni. E
poiché questo stesso interesse opera come freno alle riforme strutturali che fossero
rivolte a rompere il cerchio delle connivenze, quale messo in rilievo, si rende
necessario poter contare sulle sollecitazioni provenienti da larghi settori
popolari sui quali più si riflettono il danno di un disordinato svolgimento
dell’azione statale e la carenza di servizi pubblici, suscettibili, oltre che
di neutralizzare le spinte particolaristiche che insidiano la funzionalità
dell’indirizzo politico, di promuovere le modifiche all’apparato statale
necessario ad assicurarla. Sembra rimanga affidato a questo movimento di massa
l’impulso all’attuazione degli imperativi costituzionali che tendono,
attraverso l’attenuazione dei conflitti fra le classi e le Regioni e
l’instaurarsi di una maggiore omogeneità sociale, a rendere meno fragile
l’unità nazionale”.
Questa
articolata e puntuale analisi è del 1973. Cosa è cambiato oggi dopo circa
quaranta anni?
Sono
mutati i nomi, le sigle dei partiti e dei partitini (che continuano a
proliferare, pur di acquisire visibilità da poter poi eventualmente spendere
per salire sulla giostrina della politica, orientando e condizionando
l’indirizzo politico), ma non la vecchia logica di potere che ha da sempre
caratterizzato il sistema dei partiti ed i loro dirigenti. …. omissis ….
Il risultato è sotto gli occhi di tutti, soprattutto in questa
particolare, convulsa e critica fase sociale ed economica. La contrapposizione,
che non è sulle scelte programmatiche, quanto sulla necessità di salvaguardare
particolari situazioni “personali” (afferenti cioè uno e pochi altri
privilegiati) blocca la democrazia e “disattiva” la Costituzione oltre a
pregiudicare oltremodo la funzionalità delle istituzioni.
Ad ogni
modo, sul versante del sistema dei partiti, ben poco è stato fatto e ben poco è
–come detto- mutato: dopo il tentativo di bipolarizzare gli schieramenti con
l’introduzione di una legge elettorale in senso maggioritario, si assiste in
quest’ultimo periodo al tentativo di ritornare al multipartismo (sempre in
ossequio alla logica di avere più possibilità di condizionamento nelle scelte
politiche e governative). Se poi allarghiamo il discorso al concreto operare
sottobanco dei partiti, emerge un pattume di corruttela e corruzione che sembra
alimentare (e lo si spera) quelle “sollecitazioni provenienti da larghi settori
popolari ” su cui già nel 1973 confidava il Mortati (vds supra).
… omissis
….
CAPITOLO
VII - RIFORME: PRIME INIZIATIVE
PARLAMENTARI
7.1 Riforma del Bicameralismo
Abbiamo
già argomentato come sia oramai consolidata l’idea della necessità di una riforma
istituzionale e come, al parlar di riforma, l’attenzione corra immediatamente e
solo all’ipotesi -maturata negli anni Novanta- di un eventuale e/o auspicabile
cambio della forma di governo.
S’ignora,
però, che -nel tentativo di correggere limiti e storture dell’attuale forma di
governo ai quali i costituenti del 1947, pur avendoli individuati, non ebbero
la forza e il coraggio di dare una soluzione- un’originaria ed anche anteriore
idea di riforma era già maturata e che la stessa ha riguardato -forse più
realisticamente- l’attuale forma di governo parlamentare. Una revisione
dell’esistente e non già un radicale trapianto, dunque.
Utile sia
per riepilogare e sia anche per comprendere tale “iniziativa di rinnovamento”
delle istituzioni repubblicane è il testo di C. Fusaro, La lunga ricerca di un
bicameralismo che abbia senso del 2008, nel quale è esaminato “il nostro
singolarissimo bicameralismo paritario indifferenziato”.
E’
un’analisi che partendo dai lavori della costituente giunge fino ai giorni
nostri ed ai recenti tentativi di riforma.
Per
sintetizzare il giudizio sul risultato finale, negativo, della costituente in
tema di bicameralismo (“è nato il nostro singolarissimo bicameralismo paritario
indifferenziato”), Fusaro riporta i giudizi espressi in merito da due eminenti
studiosi, L. Paladin e E. Cheli secondo cui il modello vincente di
bicameralismo appare quello ‘differenziato’, che consente di assegnare a
ciascuna Camera, in ragione della loro formazione, un proprio ruolo ed una
funzione evitando il rischio di duplicazioni.
… omisiss
….
Secondo
Cheli [voce Bicameralismo, in Digesto delle discipline pubblicistiche, vol. II,
Torino: Utet, 1987, p. 323], <<si istituì …una forma di bicameralismo
atipico, che non veniva a trovare alcun riscontro nell’esperienza degli altri
paesi europei: un bicameralismo cioè caratterizzato dal fatto di essere
perfettamente ‘paritario’ sul piano funzionale, non molto differenziato sul
piano strutturale e solo embrionalmente agganciato ad una prospettiva
(incompiuta) di decentramento territoriale…>>.
Ebbene, la
nostra storia istituzionale insegna che le vicende successive del bicameralismo
sono state del tutto coerenti con le premesse deludenti delineatesi in sede
costituente, così come anticipato nel giudizio di Paladin. Non era solo una
questione di cattiva volontà: il problema era ed è strutturale
…. Omissis
…..
A conferma di un bicameralismo irrisolto, i
progetti di riforma di esso correttivi si susseguirono sia nella II sia nella
III legislatura quando finalmente giunsero in porto con legge costituzionale 9
febbraio 1963 che modificò gli articoli 56, 57 e 60 della Costituzione:
stabilendo una stessa durata per le due Camere (art. 60) ed anche il numero
fisso di deputati (630) e senatori (315) elettivi.
Da allora
l’assetto del nostro Parlamento non è più mutato: esso è stato influenzato
naturalmente dalla legislazione ordinaria; a tal proposito si segnalano in
primis l’abbassamento della maggiore età, fissata a 18 anni nel 1974
(determinando un allargamento della forbice rappresentativa fra Camera e Senato
con conseguenze non immediate ma tendenzialmente crescenti nel tempo), e poi la
riforma elettorale del 1993 che introduceva alcune differenziazioni nelle due
formule elettorali. Nel combinarsi con l’elettorato attivo diverso, queste
iniziative legislative hanno infatti prodotto esiti meno omogenei tra le due
Camere rispetto a un tempo: evidentemente nel 1994 (quando la coalizione
intorno a Berlusconi non ebbe la maggioranza al Senato) e nel 1996 (quando,
questa volta, il centrosinistra di Prodi non poté fare a meno del sostegno di
una forza vicina, ma estranea alla coalizione: Rifondazione comunista), meno
nel 2001 per il grande successo del centrodestra. Tuttavia, quest’ultimo
problema sembra tuttora sussistere -a Costituzione vigente- e si è, anzi, forse
aggravato, dopo l’entrata in vigore della legge 270/2005 (per via dei premi
<<regionalizzati>>, cioè attribuiti Regione per Regione, nel
dichiarato rispetto della discussa previsione costituzionale sull’elezione del
Senato <<a base regionale>>).
Intanto,
sono trascorsi dodici anni, ma l’ipotesi di riforma emersa e prevalsa in
Bicamerale non è stata più inserita nell’agenda politica. Motivo? Non è da
scartare l’ipotesi, riteniamo noi, che -e prescindendo dagli evidenti limiti ed
incongruenze della riforma- il suo accantonamento altro non è che la conferma
della scarsa convinzione degli stessi promotori non tanto sulla necessità del
progetto di riforma quanto sulla sua “struttura” e sulla sua opportunità
politica.
Se così
fosse, dovremo dedurre che la politica italiana in effetti “viaggia a vista”
più che seguendo logiche istituzionali, badando purtroppo più ad interessi
contingenti ed elettorali (se non di parte) che all’interesse della
governabilità.
8.2 Le riflessioni critiche in tema di riforme
di Silvio GAMBINO
8.2.1
Introduzione
Ad
introdurci sarà lo studio di Silvio Gambino che nel suo <<Dal
‘semipresidenzialismo debole’ al ‘Premierato assoluto’ - Riflessioni critiche
sulla ingegneria costituzionale in tema di forma di governo, 2004>> ha
analizzato “criticamente” i tentativi di riforma susseguitisi dal 1997 al 2004.
Non solo, quindi, il progetto della Bicamerale, ma anche il tentativo
successivo.
Ponte 1 dicembre 2016 giacomo de angelis
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