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La finestra da sempre rappresenta il luogo più caro di un’abitazione. Consente di controllare, guardare e seguire le vicende del vicinato, di scambiare saluti e di relazionare con passanti e dirimpettai. Insomma, è la postazione per eccellenza di ogni abitazione. Ed analogamente, e con la fantasia che talvolta deve caratterizzare le umane iniziative, questa “Finestra su Ponte” intende essere, diventare –anche con il fattivo contributo di partecipazione, d’informazioni, di materiale, d’idee e d’opinioni di quanti condivideranno l’iniziativa- il “nostro” sguardo su tutto ciò che ci circonda e che ci riguarda da vicino ed anche da lontano. In altre parole, intende diventare un modo tecnologico per relazionare. Le nostre “finestre” non sono ovviamente tutte uguali, hanno infatti una diversa visuale, una diversa prospettiva, come le nostre conoscenze e … “punti di vista”. Ciò è naturale ed è anche la caratteristica e la linfa di ciascuna comunità.

giovedì 1 dicembre 2016

Riforma Boschi Si, riforma Boschi No. Io sono per il SI dal 2011, e ne spiego il motivo!


Pubblico alcuni stralci della tesi da me discussa nel 2011: “La forma di governo Semipresidenziale: applicabilità al sistema italiano”.
Perché lo faccio?
Semplicemente per affermare che sono convinto della necessità di una riforma di cui si parla dagli anni settanta, ma che il sistema dei partiti continua a rimandare.
Perché è rimandata?
Il perché lo spiego nella tesi, per coloro che avranno la pazienza di leggerne gli stralci; tuttavia posso sintetizzarlo con uno slogan: “Per timore di perdere poltrone e privilegi in evidente dispregio dei bisogni primari dei cittadini”.
Taluni paventano una deriva autoritaria, anche i fautori della riforma di Berlusconi del 2006 che -almeno mi par di ricordare- aumentava addirittura i poteri e la discrezionalità del Premier.
Ad ogni modo, la riforma su cui siamo chiamati ad esprimerci non sarà una riforma perfetta, ma si potrà sempre perfezionare.
L’importante è partire!
Primo stralcio, la premessa:
PREMESSA
Questa tesi mi ha consentito di ricordare, ma soprattutto di scoprire proposte e dinamiche politiche che –pur avendole vissute come cittadino- non avevo focalizzato.
Ho scoperto così una pagina della storia istituzionale italiana ricca di avvenimenti e di confronti parlamentari che mi consente una diversa valutazione dell’azione e dell’atteggiamento di partiti e di rappresentanti delle istituzioni che ne sono stati i protagonisti, nel bene ed anche nel male.
L’argomento che mi accingo ad analizzare è stato al centro del dibattito politico italiano, soprattutto in quest’ultimo ventennio allorquando si è tentato di riformare il nostro sistema istituzionale. Ma di riformare il sistema si parla dagli anni settanta/ottanta: il Rapporto del ministro per la Funzione Pubblica, Giannini, del 1979 e l’istituzione di due Comitati di studio in ciascuna delle due Camere, rispettivamente presieduti dal senatore Bonifacio e dal deputato Riz (1982) furono il prodromo della costituzione nella IX legislatura della prima Commissione parlamentare per le riforme istituzionali [C.Fusaro – Il Governo dei cittadini- (a cura di) A.Barbera e G.Guzzetta, 2007]. A questa iniziativa parlamentare ne sono seguite altre, ma –e questo è stato il loro limite fondamentale- sono state affidate ad iniziative non parlamentari, ma di maggioranza che, in quanto tali, hanno avuto il grave difetto di non essere state coinvolgenti e condivise giacché giudicate –a torto o a ragione- partigiane.
Ad ogni modo, sulle dinamiche di questi tentativi, sia delle tre bicamerali e sia dei due successivi tentativi delle maggioranze di centrosinistra e di centrodestra (che hanno originato un ampio dibattito politico e dottrinale) mi soffermerò nei capitoli VIII e IX.
Stiamo parlando di tentativi dai quali, comunque, sebbene naufragati, non si può prescindere se si dovrà, alla fine, dare una risposta alla domanda nella tesi: la forma di governo del semipresidenzialismo è applicabile al sistema italiano?
Passo ora direttamente all’epilogo:
A)   Necessità di una riforma
A giudizio unanime degli analisti del settore giuridico, politologico e storico-istituzionale, la forma di governo italiana appariva -ed appare tuttora - meritevole di riforma per superare la natura ‘peculiare’ fra le forme di governo parlamentari contemporanee, e ciò sia in ragione delle scelte operate dal costituente del ’48 e sia, soprattutto, per l’impatto che sulla stessa hanno avuto nel tempo i partiti politici e le leggi elettorali (c.d. Costituzione materiale).
… omissis …
Sarà un luogo comune attribuire alla c.d. ‘crisi istituzionale’ la responsabilità delle anomalie che caratterizzano la politica e la governabilità, ma così è.
Crisi istituzionale non significa una sorta di rottura escatologica, senza ritorno, degli equilibri e dei poteri fondamentali dello Stato, tale da produrre effetti di confusione, anarchia e di deresponsabilizzazione nel funzionamento dei poteri e nell’attività degli organi costituzionali. Visione questa radicalmente inadeguata a fronte dell’esigenza di una più congrua definizione della crisi istituzionale che bisogna, piuttosto, intendere come un processo di continuo adeguamento (in sede di attuazione e di vita dell’ordinamento costituzionale) delle regole e della organizzazione costituzionale formale alle esigenze (e secondo modalità imposte o solo promosse) dei più rilevanti centri di potere politico-comunitari. Al riguardo non si pensi solo ai partiti politici, dovendosi includere nell’elenco di tali centri di potere, almeno, i sindacati, le associazioni industriali e mezzi di comunicazione di massa (a base nazionale)
….. omissis …..
Ma tale prospettiva si scontra con una realtà che non è più composta di soli assetti giuridico-costituzionali quanto di uomini che rendono tali assetti concretamente vivi ed operanti. Pertanto, nessuna riforma appare praticabile se non si affronta prioritariamente il problema degli uomini, quindi della classe politica, del suo ampliarsi a dismisura (in ciò sostenuta dalla legislazione elettorale e dal finanziamento pubblico dei partiti), del suo conseguente accentuare la politicità dell’azione amministrativa, ma soprattutto l’obnubilamento delle regole e delle istituzioni costituzionali.
….. Omissis …..
In questa direzione appaiono sicuramente utili le proposte, avanzate da più parti, di una riduzione numerica e di sistemi di selezione adeguati dei parlamentari.
Un’altra soluzione è quella più specificatamente orientata ad un intervento riformatore concernente taluni aspetti della attività dei partiti che -benché attribuiti all’autonomia interna degli stessi- devono rispondere a procedure giuridiche più garantistiche (la previsione di statuti che regolamentino in modo efficace la democrazia interna dei partiti appare una questione non più ulteriormente rinviabile, a fronte di partiti in cui la democrazia interna è tutt’altro che dimostrata).
9.5.3    Ma non si potrebbe riformare senza stravolgere la Costituzione?
…. Omissis ….
 Nel nostro viaggio ci siamo dilungati pure su quelli che erano gli aspetti di contorno del tema (forme di stato e forme di governo, la Costituzione francese, il semipresidenzialismo, le ragioni di una riforma), ma attenzione abbiamo riservato soprattutto alle ragioni di un “cambiamento”. Abbiamo, così, rilevato che la stagione delle riforme parte da lontano: dagli anni Settanta; abbiamo anche rilevato che le ipotesi presidenziale e semipresidenziale non sono una novità recente, ma semmai sono una riscoperta.
Abbiamo anche esaminato quelle che sono state individuate come le ragioni politiche ed istituzionali che imponevano ieri ed impongono oggi la necessità di un cambio di rotta alle istituzioni: abbiamo così rilevato che l’idea di una riforma trae origine da una crisi delle istituzioni politiche italiane, manifestatasi negli anni Settanta e tuttora perdurante, riconducibile comunque alla crisi del sistema politico-partitico. In particolare, si è determinata, in primo luogo la rottura dell’equilibrio tra momento dell’unità politica, la cura dell’interesse generale che va al di là dei particolarismi dei gruppi, e gli interessi frazionali (vale a dire, i “piccoli” interessi dei cittadini). Poi, la forma di governo -operante sulla base della Costituzione, delle convenzioni e delle leggi di attuazione della Costituzione- si è rivelata incapace di frapporre ostacoli al prevalere degli egoismi di gruppo in nome di un interesse generale; infine, il meccanismo rappresentativo ha prodotto un’oligarchia chiusa e irresponsabile.
Un Parlamento ed un Governo ostaggi dei partiti (ieri, oggi addirittura di singoli parlamentari) non riuscivano ieri e non riescono oggi più ad assicurare l’equilibrio tra l’egoismo di gruppo e l’interesse generale in una società divenuta complessa e articolata, all’interno della quale erano e sono venute meno le tradizionali linee di divisione su cui erano state costruite le identità partitiche, soprattutto dopo la rivoluzione dell’Est del 1989, che ha comportato la crisi delle ideologie.
Analizzando quest’ultimo mutamento epocale della storia recente emerge la caduta della capacità rappresentativa dei partiti e l’indebolimento dello strumento ideologico che hanno determinato: da un lato, la chiusura oligarchica del sistema, accentuata dall’inamovibilità dei partiti di governo e dalla loro irresponsabilità politica; dall’altro, la ricerca del consenso ha indotto i partiti a dare soddisfazione a tutti gli interessi frazionali dotati di sufficiente forza di pressione. Chi non ricorda quanto forte è stata la pressione di questi interessi? Chi poi ignora l’effetto che tale “pressione” ha esercitato sulla spesa pubblica?
Così ha avuto origine la “politica clientelare” che il trattato di Maastricht, con i suoi  parametri per il contenimento dei disavanzi pubblici, ha intanto messo al bando (purtroppo quando il danno era stato procurato). Tale imposizione della Unione Europea ha posto freno alle politiche d’indebitamento, rappresentando una fondamentale premessa per il crollo di un sistema e di una classe politica che aveva fondato la sua stabilità ed il suo vasto potere di condizionamento, e anche di malaffare, sui benefici erogabili ai più disparati gruppi sociali. Da qui l’invocazione di una riforma costituzionale che avrebbe dovuto, e dovrebbe, rispondere al bisogno di radicare le istituzioni nella società e, al tempo stesso, di attenuare il potere di ricatto e di veto degli interessi frazionali.
A) … , si potrebbe più semplicemente cambiare legge elettorale
Ma occorre per davvero una riforma costituzionale o, semmai, basterebbe una legge dei partiti per tentare di “regolare gli sregolati”, come indica G.U. Rescigno; un’idea, questa, ripresa da S. Gambino (capitolo VIII - punto 8.2.3) il quale, dopo aver evidenziato la crisi dei partiti, la personalizzazione della politica, il condizionamento dei partiti sulle istituzioni centrali e periferiche, ribadisce che quello dei partiti politici indisciplinati è un problema non ancora risolto, che continua a minare nel fondo l’autorevolezza, la stabilità e la funzionalità delle istituzioni repubblicane. Occorrerebbe, quindi, pensare ad un ridimensionamento delle interferenze dei partiti nella dinamica dei poteri costituzionali.
Avendone il coraggio e la responsabilità, il Parlamento avrebbe potuto e dovuto operare un intervento riformatore concernente taluni aspetti della vita del partito a maggiore gravitazione pubblicistica; allo scopo sarebbe stata utile già una semplice riforma della legge elettorale finalizzata ad assicurare stabilità e coerenza agli indirizzi politici del Governo. Invece, probabilmente per non mutare nulla, il Parlamento ha optato per una improbabile riforma costituzionale che il sistema politico ha sistematicamente affossato.
Anche Mortati, nel suo studio “Le forme di Governo”, affronta già nel 1973 questo aspetto della politica italiana individuando proprio nel sistema dei partiti la causa principale dell’instabilità governativa che caratterizzava e caratterizza il nostro sistema. Mortati poi individuava a tal proposito anche uno dei possibili rimedi: una seria riforma elettorale maggioritaria per indebolire l’influenza dei partiti sugli organi di indirizzo politico (in merito si rimanda al sesto capitolo punto 6.3 B).
Mortati e Gambino, come d’altronde altri eminenti studiosi, individuavano (Mortati addirittura negli anni Settanta) ed individuano (Gambino in tempi molto più recenti) in una riforma elettorale la soluzione immediata per risolvere il problema, quello cioè dell’instabilità ed inefficienza dei Governi che ha caratterizzato la nascita e la sorte dei Governi e dei Parlamenti stessi dagli anni Settanta ad oggi.
… omissis …
e si tratta (in Italia oggi, e nonostante una pseudo legge elettorale di stampo maggioritario, cucita su misura più per le esigenze elettorali dei promotori che per dare stabilità parlamentare e governativa) di un parlamentarismo non maggioritario, caratterizzato da governi di coalizione instabili e scarsamente efficienti, in cui il Primo ministro non svolgeva e non svolge un ruolo di direzione, ma di mediazione tra le diverse componenti politiche dell’esecutivo. Inoltre, a questa debolezza del Governo non corrispondeva e non corrisponde un ruolo preponderante del Parlamento (oggi men che mai), bensì un suo sostanziale e parallelo indebolimento: e ciò sia per l’assenza al suo interno di una maggioranza stabile e coesa, sia per il ruolo determinante svolto dai partiti politici (oggi anche, e soprattutto, da singoli parlamentari che per tornaconti personali, altro che responsabilità, sono pronti a cambiare casacca anche due volte al dì) sia nella formazione dei governi, sia nel garantirgli un voto di fiducia e sia anche nella ricerca di un accordo su singole misure legislative. Cosa dire del “peso” che oggi ha la Lega Nord? E’ l’ago della bilancia come lo era il Psi di craxiana memoria della Prima repubblica che condiziona le scelte del Governo avanzando proprie contro-richieste: devolution e federalismo, alle quali l’attuale Governo non può dire di no.
In definitiva, come abbiamo già detto, i sistemi parlamentari non maggioritari riconoscono ai partiti e persino a singoli parlamentari neo eletti un ruolo determinante di mediazione post-elettorale che, attribuendo loro la libertà di spendere la rendita di posizione garantita dal voto elettorale (ora solo dalla nomina delle segreterie politiche), li trasformava ieri e li trasforma oggi nei reali sovrani delle sorti dei Governi e delle legislature.
Non crediamo che questa analisi sia sfuggita ai nostri parlamentari; anzi, crediamo che proprio perché ne sono consapevoli hanno finora evitato una vera e seria legge elettorale  maggioritaria.
Tuttavia, non si disconosce la validità delle considerazioni sia di Mortati e sia di Gambino sulla necessità di una legge elettorale che limiti i margini di mediazione dei partiti, ma occorre anche evidenziare che nel frattempo la situazione politico-istituzionale è mutata: c’è ora il Federalismo che richiede necessariamente un adeguamento anche della nostra Carta Costituzione.
B) … , o razionalizzare ed emendare la Costituzione
Già al precedente punto 9.4.2 abbiamo riferito questa soluzione.
…. Omissis ….
Secondo Gambino, infatti, per riformare sarebbe più utile procedere alla formalizzazione, ovverosia alla costituzionalizzazione di quei mutamenti istituzionali che per opinione comune e condivisa si ritiene costituiscano consolidate consuetudini costituzionali.
….omissis….
 Lo stesso Gambino infatti cita Leopoldo Elia, maestro del diritto costituzionale. Elia, esprimendosi sulla proposta di riforma della quale si dibatteva dentro e fuori il Parlamento: quella di Lorenzago (2003), evidenziava che la forma di governo italiana -oggetto di continui tentativi di riforma o di sole proposte di riforma- andava razionalizzata ma non pervertita.
… omissis …
Perché, dunque, cambiare modello quando si potrebbe più semplicemente emendare la Costituzione vigente? Un orientamento, questo, in linea con quei costituzionalisti ed esponenti politici che -per “modernizzare ed adeguare” la Costituzione- avrebbero preferito il criterio dell’emendamento al criterio del modello.
Anche Stefano Merlini [La forma di governo: i poteri del Presidente della Repubblica, 1998] era di questo avviso. Al capitolo VIII abbiamo riferito come Merlini -pur esaltando l’intelligenza dei costituenti per aver costruito una Costituzione “elastica”- lamentava però la mancanza di una <<cultura dell’emendamento costituzionale>>, alla stregua di altri paesi (es. Stati Uniti); se una tale cultura fosse stata recepita anche in Italia, i partiti avrebbero compreso che il pregio dell’elasticità non poteva rappresentare la giustificazione per non introdurre in Costituzione indispensabili modifiche. Ciò oltretutto avrebbe permesso di reperire in Costituzione le potenzialità espansive dimostrate dal sistema, salvando in tal modo l’impianto e l’ispirazione originaria del nostro modello. 
9.5         Considerazioni finali
Molte strade, nessuna destinazione.
Noi siamo giunti a destinazione (la conclusione della tesi), la classe politica, invece, sta ancora girovagando non decidendo ancora quale direzione prendere e seguire per riformare il “sistema Italia”. Le ragioni -sia quelle formali e sia quelle meno formali (quelle che si pensano ma non si dicono)- crediamo di averle già individuate ed indicate.
Nello sviluppare il precedente punto 9.5 abbiamo constatato che sono varie e diverse tra loro le ipotesi formulate da politica e da dottrina per riformare ciò che andrebbe riformato, alcune condivisibili, altre meno. Però, finora è mancata condivisione -innanzitutto politica- e di conseguenza la loro “formalizzazione costituzionale”. A tal proposito prevale in noi -come peraltro in vari passaggi del nostro lavoro è stato anche esternato (più che evidenziato) con espressioni che esprimono la delusione del cittadino comune e, naturalmente, critica all’attuale entourage politico- la “sensazione” che chi detiene l’onere e l’onore di rappresentarci (i parlamentari, per l’appunto) “non cambia per non cambiare”, non riforma per non cambiare una situazione che in fondo favorisce il modus operandi dei nostri politici ed il dominio sulle istituzioni centrali e periferiche, come l’attualità ci conferma quotidianamente.
Al punto 9.4.1, nell’argomentare le ragioni del fallimento della riforma della Bicamerale, è stato sottolineato che la riforma di un ordinamento costituzionale non è solo questione di norme giuridiche da cambiare ma, prima ancora, di cultura politica da adeguare allo scopo.
Lo ribadiamo, precisando però che la cultura politica da adeguare non è solo quella della classe politica (della c.d. casta), ma anche quella dell’intero sistema Italia, compresi i comuni cittadini. C’è tanta assuefazione, indifferenza, accondiscendenza e, in molti casi, un filo di complicità che lega ed accomuna il “cittadino/elettore” al “politico di turno”; ciò non può che favorire lo status quo e la perseveranza dei referenti politici a non cambiare.
Il filo che dovrebbe “legare” il cittadino al politico non dovrebbe essere quello finalizzato al perseguimento di un privilegio, ma dovrebbe essere quello dell’apprezzamento dell’impegno profuso dal politico, quello della condivisione di un programma, quello dell’eventuale riferimento “ideologico”, quello della vicinanza territoriale. Questo dovrebbe motivare il voto.
… omissis….
L’attuale sistema elettorale (unito ad una forte personalizzazione dello scontro politico) ha generato l’illusione di un Premier eletto direttamente dal popolo senza al contempo prevedere meccanismi di rafforzamento del Parlamento. Anzi, con la legge elettorale vigente, che prevede l’elezione dei deputati e dei senatori attraverso liste bloccate, si è svilito il ruolo, la funzione e il prestigio dei parlamentari stessi. Eppure la nostra resta, formalmente, una Repubblica parlamentare, non presidenziale. Inoltre, anche la promessa di una maggiore stabilità si è nei fatti dimostrata illusoria; lo dimostra l’esperienza degli ultimi anni e di questi ultimissimi giorni che ha segnato, tra l’altro, il preoccupante aumento anche di quel trasformismo politico che, con il bipolarismo e la democrazia dell’alternanza, si pensava potesse divenire solo un brutto ricordo del passato. E’ dunque fuori discussione che il superamento di questo sistema elettorale (definito addirittura un mostro giuridico-politico) sia la condizione necessaria a qualsiasi tentativo di costruire un sistema istituzionale moderno, stabile e in grado di garantire maggiore velocità nell’assumere scelte e prendere decisioni.
Per chiudere. Abbiamo constatato che le soluzioni per riformare il nostro ordinamento costituzionale ci sono e sono tante. Quella dell’ingegnere Sartori è suggestiva e nemmeno peregrina, ma non è adatta per la nostra classe politica. Riteniamo, poi, che non si possano condividere quelle che implicano l’importazione e l’adattamento alla meno peggio (come nel caso della Bicamerale e del Premierato forte della XIV legislatura) di modelli e di meccanismi degli altri paesi europei. Occorrerebbe, invece, partire dalla consapevolezza che le riforme vanno fatte seguendo lo spirito della nostra Costituzione e avendo come obiettivo alcune esigenze principali sulle quali imperniare un progetto di modifica. Basterebbe qualche “ritocco” per “ringiovanire” il nostro sistema parlamentare, come: 1. una diversa e “seria” legge elettorale; 2. il superamento del bicameralismo paritario con un Senato rappresentante delle Regioni e degli Enti locali; 3. la riduzione del numero dei parlamentari; 4. qualche prerogativa per il Capo del Governo che gli consenta una direzione responsabile di un’attività governativa stabile e efficiente;  5. norme antiribaltone; 6. procedure parlamentari più celeri; 7. e …. tanta, tanta e poi tanta  responsabilità politica.
E’ così complicato?
Chi vorrà potrà poi leggere gli stralci preliminari alle conclusioni.
CAPITOLO VI – IL PERCHE’  DI UNA RIFORMA ISTITUZIONALE                    
6.1   Introduzione
Prima di affrontare la “spinosa” ipotesi di una eventuale importazione ed applicazione al nostro sistema della forma di governo semipresidenziale, è necessaria una breve analisi delle istituzioni dello Stato italiano, da compiere sotto il duplice riguardo della struttura risultante dalla normativa costituzionale del 1948 e dell’effettivo suo concretarsi nella prassi instauratasi dopo la sua applicazione. Nel farlo attingeremo utili spunti dallo studio di C. Mortati [Le forme di governo, 1973]; tuttavia, considerando che frattempo, cioè dall’analisi di Mortati che è riferita al 1973, sono trascorsi oltre trentacinque anni -intensi di avvenimenti e cambiamenti politico-istituzionali- integreremo l’analisi di Mortati con più recenti spunti offerti da altrettanti eminenti studiosi, quali C. Fusaro [da Le radici del semi-presidenzialismo – Viaggio alle origini di un modello cui si guarda in Italia, 1998].
A questo punto, ci si potrà chiedere la ragione per cui si è scelta, tra le altre, un’analisi -quella di Mortati- riferita ad oltre trentacinque anni. Ecco la risposta: innanzitutto per la valenza dello studio di uno dei più interessanti e competenti costituzionalisti; poi per mettere in risalto l’immobilismo della nostra politica e la persistenza delle problematiche della nostra forma di governo che, sebbene siano state sviscerate dagli anni Settanta (ed anche prima, per la verità), persistono e continuano a condizionare il funzionamento delle nostre istituzioni; infine perché -stando al Mortati- la nostra Costituzione già conteneva i rimedi che oggi si vorrebbero introdurre per garantire stabilità ed efficienza governativa. E questa ipotesi -che sarà trattata al successivo punto 6.3 quando Mortati illustrerà le funzioni dell’organo esecutivo- non va sottovalutata, anzi va soppesata allorquando si tratterà di individuare e valutare quelli che potrebbero essere i “rimedi” istituzionali per dare efficienza e stabilità all’azione governativa.
……… omissis…….
6.3    Forma di governo prevista dal costituente e sua inesatta ed
         incompleta realizzazione.

Si tratta ora di vedere quali siano le strutture organizzative predisposte dal costituente configuranti la forma di governo, quanta idoneità sia loro da riconoscere ad assicurare una congrua e tempestiva attuazione dei compiti statali, per la soddisfazione delle esigenze di trasformazione dell’assetto sociale ad essi collegate, infine se ed in quanta parte il concreto spiegarsi della prassi sia riuscito ad uniformare l’attività dello Stato agli imperativi costituzionali.
A)    Il nostro regime parlamentare monistico maggioritario
Ebbene, il regime voluto attuare è quello parlamentare monistico maggioritario. E’ monistico perché concentra la funzione di indirizzo politico nel Governo che deriva la sua investitura dalla fiducia (quale risulta conferita dal voto favorevole della maggioranza formata dal partito vittorioso nelle elezioni o dai partiti di coalizione quando nessuno abbia singolarmente raggiunto il voto della metà più uno degli elettori) del Parlamento con l’approvazione del programma da parte di ciascuna Camera quale viene enunciato dal Presidente del Consiglio dei ministri investito della carica dal Capo dello Stato.
Il Parlamento è eletto a suffragio universale e si divide in due Camere poste in posizione di parità tra loro, aventi la stessa durata di cinque anni. Le due Camere rispecchiano gli stessi schieramenti di partito, il che, se da un lato riesce ad evitare conflitti di fondo tra le medesime, presenta poi il risvolto negativo di svuotare in parte la ragion d’essere del bicameralismo, tendenzialmente rivolto ad arricchire la rappresentanza politica attraverso l’impiego di canali fra loro diversi per far più compiutamente giungere allo Stato la voce delle varie forze sociali operanti nel Paese. 
… omissis …..
Il rapporto fiduciario che lega il Governo al Parlamento …. omissis …. è predisposto in modo da conferire al primo la figura non già di organo esecutivo della volontà del secondo (che postulerebbe una forma assembleare), bensì di organo direttivo, come risulta anche dall’art. 95 della Costituzione che affida al Presidente del Consiglio la direzione e la connessa responsabilità della politica generale, ciò che richiede la sua preminenza nei confronti non solo dei membri del gabinetto (che sono scelti dal Presidente stesso dopo l’incarico conferitogli di formare il Governo), ma anche della maggioranza che lo sostiene.
Pertanto, secondo Mortati il nostro sistema istituzionale era stato predisposto per consentire al Governo di operare in maniera più efficiente ed “autonoma”.
…. omossis …..
B)    Cosa non ha funzionato nella direzione voluta dai Costituenti?
La risposta a tale domanda è stata individuata, probabilmente o certamente, nel sistema dei partiti che “sottostà agli organi di indirizzo politico e che ne condiziona l’effettivo funzionamento in quanto ne costituisce il sostegno trasmettendo loro gli impulsi provenienti dal corpo elettorale con l’esercizio del diritto di voto”.
Nel suo studio il Mortati affronta anche questa questione con un’analitica rappresentazione che si ritiene di dover riportare anche per meglio individuare non solo una (o forse l’unica) delle cause alla base dell’instabilità governativa che caratterizza il nostro sistema, ma anche uno dei possibili rimedi: una seria riforma elettorale maggioritaria per indebolire l’influenza dei partiti sugli organi di indirizzo politico.
Entriamo ora nella rappresentazione di Mortati.
In contrapposto agli Stati a partito unico, quelli che più coerentemente svolgono il principio democratico considerano la pluralità dei partiti strumento necessario a realizzare il procedimento dialettico, che risulta dall’azione contrapposta della maggioranza e dell’opposizione, e dall’alternativa al governo con lo scambio dall’una all’altra nella direzione della politica nazionale.
Muovendo da un criterio puramente numerico, la distinzione che ne risulta è quella tra i sistemi a <<bipartitismo>> e quelli a <<multipartitismo>>.
Il <<bipartitismo>> ha il vantaggio di raccogliere intorno ad uno dei due partiti contendenti la maggioranza assoluta dei suffragi orientandola nel senso dell’adesione al programma di cui esso si fa esponente, e di conferire stabilità e coerenza all’azione di governo a cui dare attuazione, e del cui fedele adempimento assume la responsabilità di fronte al corpo elettorale, chiamato a giudicarlo alla fine della legislatura. Sono appunto queste esigenze di coerenza e di compattezza colleganti fra loro partito e governo che danno vita ad una unione personale fra il leader del partito ed il capo del governo.
Il <<multipartitismo>> si presenta invece con aspetti assai diversi e richiede, per l’esatta valutazione da effettuare delle sue molteplici maniere di manifestazione, che si prendano -in luogo del criterio solamente quantitativo del numero dei partiti che si contendono il suffragio- altri criteri che tengano conto, da una parte, della compattezza interna di ogni partito e correlativamente della sua capacità di assumere obblighi e responsabilità di fronte al corpo elettorale (compattezza facilitata dal raccogliersi della compagine partitica intorno ad un leader), dall’altra, della convergenza di fondo di tutti i partiti intorno a valori posti a fondamento del regime, cui corrisponda una estesa convinzione della loro effettiva adesione al metodo democratico. 
Relativamente al <<multipartitismo>> si suole distinguerlo in <<moderato>> ed <<estremo>>. Il primo si può configurare anche come <<maggioritario>> volendosi significare il raccogliersi di una maggioranza stabile che sostiene il Governo per tutta la legislatura, e che -visto sotto questo aspetto- presenta caratteri di analogia con il regime bipartitito. Questa situazione può realizzarsi in due modi, cioè con la formazione del governo: a) ad opera di quello tra i vari partiti che abbia raggiunto la maggioranza assoluta; b) o, quando tale ipotesi non si verifichi, ad opera di una coalizione di più partiti fra loro omogenei, legati da un accordo intorno ad un comune programma, che per la sua attuazione richieda il mantenimento del vincolo per tutto il periodo di durata della legislatura.
…. omossis …..
Ad ogni modo, e per ritornare all’analisi di Mortati, contrapposto al multipartitismo <<maggioritario>> è quello <<estremo>> o <<non maggioritario>>, in quanto le coalizioni -rese necessarie al fine della costituzione del Governo- sono caratterizzate da instabilità, non riuscendosi a tenerle strette intorno ad un <<accordo di legislatura>>, e quindi suscettibili di dissolversi in ogni momento per venir meno dell’appoggio anche di uno dei partiti che entrano a comporle.
C)    Democrazia bloccata ieri e democrazia zoppa oggi
In tale contesto, secondo Mortati, le difficoltà di alimentare una direzione politica dinamica e coerente possono essere accresciute da due fattori: 1) dal costituirsi all’interno di ogni partito di <<correnti>> (ndr, è il caso dell’allora maggior partito, della Democrazia Cristiana), cioè suddivisioni promosse da un diverso modo di valutare il programma o l’azione del partito (e, più spesso, dalla gara fra più capi per la conquista di posizioni di preminenza) che, inducendo a dar vita a vere e proprie sub-organizzazioni interne al partito, contribuiscono in modo notevole alla sua inefficienza; 2) maggior compromissione per la funzionalità del sistema può essere determinato dal secondo fattore, costituito dalla sussistenza di formazioni politiche considerate non suscettibili di assumere responsabilità di governo in quanto, da diffusa opinione, venga contestata la compatibilità dell’ideologia assunta a base delle medesime con l’etica democratica; con il risultato di circondarle del sospetto che il potere di governo al quale concorressero sarebbe utilizzato per scalzare le libere istituzioni e per far loro assumere l’esercizio dell’autorità in modo dittatoriale (ndr, è il caso del Partito Comunista Italiano ed anche del Movimento Sociale Italiano).
Ebbene, secondo Mortati, “la situazione italiana” degli anni Settanta si accostava a quest’ultimo modello, in forma che può definirsi esasperata, perché, nell’ambito degli otto partiti stabilmente organizzati, ne ospitava, accanto a sei minori, due maggiori: uno <<di governo>>, la Democrazia Cristiana, che, in virtù anche dell’appoggio delle gerarchie ecclesiastiche, aveva raccolto intorno a sé il 35-40% dei voti; l’altro <<non di governo>>, il Partito Comunista, forte del 25-27% dei suffragi. Quest’ultimo rappresentava una forza compatta perché organizzato in forma centralizzata intorno al gruppo dirigente, sicché i dissensi di orientamento, pur sussistenti nel suo seno, non davano vita a correnti. La prima invece che, per la sua forza numerica appariva elemento ineliminabile per qualsiasi formazione di governo funzionando, pertanto, quale asse portante di ogni specie di coalizione, era invece inceppata nella sua azione da una molteplicità di suddivisioni interne, che contribuivano a rendere oscillante la sua azione, privandola della necessaria precisione e rapidità.
La posizione di centro occupata dalla D.C. -rivolta a mantenere una equidistanza dalle ali estreme dello schieramento politico e l’interclassismo che ne stava a base … omissis… - si poneva in realtà come fattore ritardatore dell’evoluzione delle istituzioni verso le direttive tracciate dalla Costituzione e rendeva più difficile, anche in considerazione della genericità dei programmi sottoposti al giudizio del corpo elettorale, l’assunzione di precise responsabilità di fronte ad esso.
“Ad ostacolare l’assunzione ad opera delle maggioranze al governo del compito che sarebbe loro specifico, di mediazione e di sintesi degli interessi che emergono dalla società, spesso fra loro contrastanti, si fa valere poi, di fatto, l’interesse dei partiti alla conservazione e al potenziamento del potere goduto, quando esso risulti soddisfatto dall’accoglimento delle pressioni settoriali provenienti dai gruppi più vari e nelle più diverse direzioni. E poiché questo stesso interesse opera come freno alle riforme strutturali che fossero rivolte a rompere il cerchio delle connivenze, quale messo in rilievo, si rende necessario poter contare sulle sollecitazioni provenienti da larghi settori popolari sui quali più si riflettono il danno di un disordinato svolgimento dell’azione statale e la carenza di servizi pubblici, suscettibili, oltre che di neutralizzare le spinte particolaristiche che insidiano la funzionalità dell’indirizzo politico, di promuovere le modifiche all’apparato statale necessario ad assicurarla. Sembra rimanga affidato a questo movimento di massa l’impulso all’attuazione degli imperativi costituzionali che tendono, attraverso l’attenuazione dei conflitti fra le classi e le Regioni e l’instaurarsi di una maggiore omogeneità sociale, a rendere meno fragile l’unità nazionale”.
Questa articolata e puntuale analisi è del 1973. Cosa è cambiato oggi dopo circa quaranta anni?
Sono mutati i nomi, le sigle dei partiti e dei partitini (che continuano a proliferare, pur di acquisire visibilità da poter poi eventualmente spendere per salire sulla giostrina della politica, orientando e condizionando l’indirizzo politico), ma non la vecchia logica di potere che ha da sempre caratterizzato il sistema dei partiti ed i loro dirigenti.  …. omissis ….  Il risultato è sotto gli occhi di tutti, soprattutto in questa particolare, convulsa e critica fase sociale ed economica. La contrapposizione, che non è sulle scelte programmatiche, quanto sulla necessità di salvaguardare particolari situazioni “personali” (afferenti cioè uno e pochi altri privilegiati) blocca la democrazia e “disattiva” la Costituzione oltre a pregiudicare oltremodo la funzionalità delle istituzioni.
Ad ogni modo, sul versante del sistema dei partiti, ben poco è stato fatto e ben poco è –come detto- mutato: dopo il tentativo di bipolarizzare gli schieramenti con l’introduzione di una legge elettorale in senso maggioritario, si assiste in quest’ultimo periodo al tentativo di ritornare al multipartismo (sempre in ossequio alla logica di avere più possibilità di condizionamento nelle scelte politiche e governative). Se poi allarghiamo il discorso al concreto operare sottobanco dei partiti, emerge un pattume di corruttela e corruzione che sembra alimentare (e lo si spera) quelle “sollecitazioni provenienti da larghi settori popolari ” su cui già nel 1973 confidava il Mortati (vds supra).
… omissis ….
CAPITOLO VII - RIFORME:  PRIME INIZIATIVE PARLAMENTARI       
7.1   Riforma del Bicameralismo
Abbiamo già argomentato come sia oramai consolidata l’idea della necessità di una riforma istituzionale e come, al parlar di riforma, l’attenzione corra immediatamente e solo all’ipotesi -maturata negli anni Novanta- di un eventuale e/o auspicabile cambio della forma di governo.
S’ignora, però, che -nel tentativo di correggere limiti e storture dell’attuale forma di governo ai quali i costituenti del 1947, pur avendoli individuati, non ebbero la forza e il coraggio di dare una soluzione- un’originaria ed anche anteriore idea di riforma era già maturata e che la stessa ha riguardato -forse più realisticamente- l’attuale forma di governo parlamentare. Una revisione dell’esistente e non già un radicale trapianto, dunque.
Utile sia per riepilogare e sia anche per comprendere tale “iniziativa di rinnovamento” delle istituzioni repubblicane è il testo di C. Fusaro, La lunga ricerca di un bicameralismo che abbia senso del 2008, nel quale è esaminato “il nostro singolarissimo bicameralismo paritario indifferenziato”.
E’ un’analisi che partendo dai lavori della costituente giunge fino ai giorni nostri ed ai recenti tentativi di riforma.
Per sintetizzare il giudizio sul risultato finale, negativo, della costituente in tema di bicameralismo (“è nato il nostro singolarissimo bicameralismo paritario indifferenziato”), Fusaro riporta i giudizi espressi in merito da due eminenti studiosi, L. Paladin e E. Cheli secondo cui il modello vincente di bicameralismo appare quello ‘differenziato’, che consente di assegnare a ciascuna Camera, in ragione della loro formazione, un proprio ruolo ed una funzione evitando il rischio di duplicazioni.
… omisiss ….
Secondo Cheli [voce Bicameralismo, in Digesto delle discipline pubblicistiche, vol. II, Torino: Utet, 1987, p. 323], <<si istituì …una forma di bicameralismo atipico, che non veniva a trovare alcun riscontro nell’esperienza degli altri paesi europei: un bicameralismo cioè caratterizzato dal fatto di essere perfettamente ‘paritario’ sul piano funzionale, non molto differenziato sul piano strutturale e solo embrionalmente agganciato ad una prospettiva (incompiuta) di decentramento territoriale…>>.
Ebbene, la nostra storia istituzionale insegna che le vicende successive del bicameralismo sono state del tutto coerenti con le premesse deludenti delineatesi in sede costituente, così come anticipato nel giudizio di Paladin. Non era solo una questione di cattiva volontà: il problema era ed è strutturale
…. Omissis …..
 A conferma di un bicameralismo irrisolto, i progetti di riforma di esso correttivi si susseguirono sia nella II sia nella III legislatura quando finalmente giunsero in porto con legge costituzionale 9 febbraio 1963 che modificò gli articoli 56, 57 e 60 della Costituzione: stabilendo una stessa durata per le due Camere (art. 60) ed anche il numero fisso di deputati (630) e senatori (315) elettivi.
Da allora l’assetto del nostro Parlamento non è più mutato: esso è stato influenzato naturalmente dalla legislazione ordinaria; a tal proposito si segnalano in primis l’abbassamento della maggiore età, fissata a 18 anni nel 1974 (determinando un allargamento della forbice rappresentativa fra Camera e Senato con conseguenze non immediate ma tendenzialmente crescenti nel tempo), e poi la riforma elettorale del 1993 che introduceva alcune differenziazioni nelle due formule elettorali. Nel combinarsi con l’elettorato attivo diverso, queste iniziative legislative hanno infatti prodotto esiti meno omogenei tra le due Camere rispetto a un tempo: evidentemente nel 1994 (quando la coalizione intorno a Berlusconi non ebbe la maggioranza al Senato) e nel 1996 (quando, questa volta, il centrosinistra di Prodi non poté fare a meno del sostegno di una forza vicina, ma estranea alla coalizione: Rifondazione comunista), meno nel 2001 per il grande successo del centrodestra. Tuttavia, quest’ultimo problema sembra tuttora sussistere -a Costituzione vigente- e si è, anzi, forse aggravato, dopo l’entrata in vigore della legge 270/2005 (per via dei premi <<regionalizzati>>, cioè attribuiti Regione per Regione, nel dichiarato rispetto della discussa previsione costituzionale sull’elezione del Senato <<a base regionale>>).
Intanto, sono trascorsi dodici anni, ma l’ipotesi di riforma emersa e prevalsa in Bicamerale non è stata più inserita nell’agenda politica. Motivo? Non è da scartare l’ipotesi, riteniamo noi, che -e prescindendo dagli evidenti limiti ed incongruenze della riforma- il suo accantonamento altro non è che la conferma della scarsa convinzione degli stessi promotori non tanto sulla necessità del progetto di riforma quanto sulla sua “struttura” e sulla sua opportunità politica.
Se così fosse, dovremo dedurre che la politica italiana in effetti “viaggia a vista” più che seguendo logiche istituzionali, badando purtroppo più ad interessi contingenti ed elettorali (se non di parte) che all’interesse della governabilità.
8.2   Le riflessioni critiche in tema di riforme di Silvio GAMBINO

8.2.1 Introduzione
Ad introdurci sarà lo studio di Silvio Gambino che nel suo <<Dal ‘semipresidenzialismo debole’ al ‘Premierato assoluto’ - Riflessioni critiche sulla ingegneria costituzionale in tema di forma di governo, 2004>> ha analizzato “criticamente” i tentativi di riforma susseguitisi dal 1997 al 2004. Non solo, quindi, il progetto della Bicamerale, ma anche il tentativo successivo.

Ponte 1 dicembre 2016                              giacomo de angelis


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